Quella statua del criminale Cialdini nel Museo Campano di Capua
Devo confessare la mia ignoranza. Ieri per la prima volta in vita mia ho messo piede nel museo campano di Capua di proprietà della Provincia di Caserta. Sono rimasto esterrefatto da tanti reperti romani esposti e ben conservati, nonchè da una pinacoteca validissima di capolavori pittorici.
Sono però rimasto altrettanto esterrefatto quando tra i busti e le effigi di vari regnanti e personaggi ho intravista la malefica barba del Generale Cialdini. Sembrava quasi la sua statua incutere ancora terrore, un olezzo viscido di morte aleggiava intorno alla scultura del criminale che trucidò donne e bambini.
Mi sono chiesto allora e mi sono posto se il serio dubbio: perchè la Provincia di Caserta espone questo busto? è probabile che non conoscano la storia del Cialdini? Oramai non ci spaventerebbe più nulla.
Ma veniamo alla storia del criminale Cialdini
Il 14 agosto 1861 Pontelandolfo e Casalduni, paesini del Beneventano, furono completamente rasi al suolo e gli abitanti trucidati senza distinzione di sesso e di età. Contrariamente agli eccidi cui ci hanno abituati le peggiori pagine della storia dell’occupazione nazista, questo crimine è molto meno noto, forse perché interessò una popolazione vicina ai “briganti”, epiteto con cui sono stati etichettati coloro che intendevano resistere all’arroganza dei piemontesi, che, all’indomani dell’unificazione dell’Italia, si comportarono da invasori e non, come avevano fatto intendere, da fratelli liberatori.
Nel 1861 in Italia meridionale i contadini erano vessati dai latifondisti filo-piemontesi che detenevano il potere. Il 7 agosto 1861 i briganti di Fra Diavolo occuparono Pontelandolfo, uccidendo i soldati piemontesi e saccheggiando e incendiando alcune case di ricchi proprietari terrieri; in quest’occasione proclamarono un governo borbonico provvisorio; ai briganti di Fra Diavolo si unirono i contadini. Qualche giorno dopo, per ripristinare l’ordine, fu inviato un reparto di quaranta bersaglieri e quattro carabinieri comandati da un tenente. Questo reparto, che all’inizio si era presentato con intenzioni concilianti, fu aggredito dalla folla che chiedeva pane e libertà e dovette rinchiudersi in una torre, da cui cominciarono a sparare sulla gente, che, inferocita, poi trucidò tutto il reparto ad eccezione di un sergente che, riuscito a fuggire, testimoniò i fatti.
Il generale Cialdini, invece di punire i colpevoli, decretò la distruzione totale di Pontelandolfo e Casalduni, considerando responsabili tutti gli abitanti del luogo. Gli abitanti di Casalduni, avvisati dell’arrivo dei soldati, abbandonarono il paese e si rifugiarono sulle montagne sotto la protezione dei briganti; solo quelli che non erano riusciti a fuggire subirono una morte atroce. Non così fortunati furono gli abitanti di Pontelandolfo. La popolazione fu sorpresa nel sonno. Le truppe, perché nessuno potesse salvarsi, chiusero le vie d’uscita del paese e si scatenarono con particolare violenza sulla popolazione, massacrando e violentando donne, vecchi e bambini.
Quindi furono saccheggiate le case e le chiese e alla fine fu dato fuoco all’intero paese, eseguendo l’ordine del generale Cialdini: “Desidero vivamente che di questi due paesi non rimanga più pietra su pietra. Ella è autorizzato a ricorrere a qualsiasi mezzo, infliggendo a quei due paesi la più severa punizione”. Il bersagliere Carlo Margolfo annotava nel suo diario: “Entrammo in paese e subito cominciammo a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitavano. Indi il soldato saccheggiava. E, infine, abbiamo dato l’incendio al paese. (…) Quale desolazione! Non si poteva stare d’intorno per il gran calore. E quale rumore facevano quei poveri diavoli che per sorte avevano da morire abbrustoliti sotto le rovine delle case. Noi, invece, durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, vino, formaggio e pane”.
Il generale Cialdini il giorno dopo telegrafò al ministro della guerra piemontese: «Ieri all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora». Ma quali erano le motivazioni che spingevano i briganti e i contadini ad assassinare soldati di un esercito non straniero, italiani come loro? In realtà i liberatori, da cui i contadini si aspettavano terra, lavoro, giustizia e libertà, si erano impadroniti di uffici pubblici e posti di governo e avevano introdotto tasse sulla successione e leggi oppressive. Molti contadini, danneggiati dalle nuove norme vessatorie, si erano armati e nascosti nei boschi; ad essi si unirono elementi diversi che avevano in comune unicamente l’odio per la modalità con cui era stata compiuta l’unificazione: furfanti di bassa lega, ma anche nobili fedeli ai Borbone, ex soldati dell’esercito borbonico, disertori, evasi dal carcere, persino ex garibaldini delusi. La successiva introduzione della legge Pica (1863), che avrebbe dovuto rimuovere il brigantaggio, servì ad accrescere il malcontento dei contadini che subivano il fascino dei guerriglieri ribelli. Alle imboscate e ai combattimenti intrapresi dai briganti seguivano le rappresaglie scientifiche degli “invasori” piemontesi. Prima venivano distrutte le chiese e uccisi i preti, poi dappertutto violenze, torture, sevizie, anche su donne, vecchi e bambini. In questo clima di terrore si consuma il dolore di migliaia di vittime, violentate, fucilate o impiccate.
Gli esecutori degli eccidi in Abruzzo, Campania, Basilicata e Calabria furono insigniti di medaglie e decorazioni. Probabilmente si trattò di una rivolta proletaria mai portata a termine e forse anche della prima guerra civile dell’Italia unita. Le violenze ingiustificate fecero scrivere a Gramsci: “Lo stato italiano era una feroce dittatura che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.
di Stefano Montone
Direttore de ‘LaRampa’