La Storia di Aversa. Vecchie tradizioni aversane: “‘A morte ‘e Carnevale”
“Carni vale”, carni addio! Iniziano le orge gastronomiche per esaurire le ultime scorte di carni prima della primavera. Questo è il linguaggio del carnevale, dove parodia e travestimenti si mescolano a vicenda.
Non era raro, nei tempi passati, soprattuto al sud d’Italia, che il nonno giocherellone o qualche altro componente della famiglia, si vestisse di tutto punto, per poi mettersi nel letto ed inscenare la morte fittizia di Carnevale.
Carnevale aveva anche una moglie, parliamo di ”Caravesema” (Quaresima), spesso raffigurata come una bambola di pezza, solitamente vestita di nero, che veniva arsa nel giorno del Sabato Santo. Alla fine della festa, il vecchio Carnevale doveva essere ucciso, affinché la comunità fosse liberata dal male, scacciando via il ”vecchio”, e facendo posto al ”nuovo”. Periodo di “gioia sfrenata”, il carnevale, si oppone alla Quaresima, periodo di “penitenza disciplinata”.
Il concetto del trapasso, dal tripudio della vita, alla fredda solitudine della morte, diventa particolarmente importante. ”A morte ‘e Carnevale”, è anche il titolo di una famosa commedia di Raffaele Viviani del 1928, resa celebre dall’intepretazione che vide come protagonisti Luisa Conte e Nino Taranto.
Di tutto ciò, rimane oggi soltanto qualche traccia, mantenuta e praticata soprattutto nei comuni più piccoli. Anche in molti quartieri aversani, era viva questa pratica. Un’usanza che affonda le radici in una vecchia consuetudine napoletana, quella della morte del ”vecchio Carnevale”, a cui si dà per tradizione il nome di Vincenzo.
In Via Piave, ad esempio, conosciuta dagli aversani come ”ncopp’ ‘o canciello”, gli amici: Luciano, Luigi ‘e fetacchia, Nicola e Vicienzo ‘o vattone, insieme a tanti altri, riuscivano ad organizzare, ogni anno, un vero e proprio corteo funebre. ”’A morte ‘e Carnevale”, quindi, era un vero e proprio funerale, con tanto di processioni, fiaccole, pianti e vedove in lutto.
Il tutto, era inscenato portando delle mazze di legno a spalla, che fungevano da letto, al centro, invece, un foro, da dove fuoriusciva la testa del caro estinto, col viso pallido, la ”scolla” intorno al collo (per mantenere ferma la mascella), e gli abiti imbottiti di paglia. Ai lati del feretro, quattro ”paputi” (uomini incappucciati) reggevano delle lanterne. Una processione tremendamente realistica, dove i pianti si alternavano alle grida e alle risate dei tanti ”parenti”.
In altre zone, invece, Vincenzo Carnevale, diveniva un semplice fantoccio di stoffa che veniva, poi, bruciato. Altre volte, la cerimonia avveniva nei portoni, intorno al fuoco. Per tutta la serata continuavano, senza soluzione di continuità, le grida, i finti lamenti, gli sghignazzamenti, mentre si sentiva udire una simpatica filastrocca: ”Carnevale se chiammava Vicienzo, teneve ‘e palle ‘e oro, e ‘o miccio ‘e argiento!”.
di Luigi Cipullo