Il Capitano Ultimo: ‘La morte di Riina riguarda lui, la sua famiglia e Dio’

“E’ una questione che riguarda lui, la sua famiglia e Dio”. Il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo, non ha voglia di parlare della morte di Totò Riina. Fu lui, il 15 gennaio del 1993 a mettere le manette al boss dei boss. Quella mattina “nei suoi occhi ho visto paura e viltà”, ha detto tempo fa in una videointervista al Corriere. “Non è soltanto un uomo cattivo, ma vigliacco. Più vigliacco che cattivo. Nel suo sguardo c’era la paura di fronte alla Legge e alla forza del Popolo”.

Dal gennaio di 24 anni fa per Ultimo tante cose sono cambiate. “Adesso mi occupo di orchidee”, scherza con l’ANSA, facendo riferimento al suo attuale incarico al Comando carabinieri forestali dove è stato relegato dopo l’ennesimo scandalo – l’inchiesta Consip, con annessi e connessi – in cui è stato coinvolto. Da “quasi eroe nazionale”, come l’ha definito una volta l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, a personaggio scomodo per molti. Per lui, invece, “solo l’Ultimo’.

Un umile servitore del Popolo e dello Stato, a fianco degli ultimi, contro la cattiveria del Potere e i soprusi”. “Non voglio e non devo dire niente” sulla morte di Riina, spiega De Caprio. Anche perché la cattura del capo dei capi – se da un lato è stato il colpo che ogni investigatore sognava e gli ha dato fama mondiale, una leggenda alimentata da fiction tv – dall’altro è stata fonte di guai. Le vicende legate alla ritardata perquisizione del covo del boss hanno trascinato in tribunale De Caprio e il suo capo, l’allora colonnello Mario Mori, e l’assoluzione dall’accusa di aver favorito Cosa nostra (richiesta dalla stessa procura e definitiva da 11 anni) non è servita a far venire meno i dubbi che anche quella cattura fosse un pezzo della Trattativa dei misteri. E ciò nonostante i giudici di Palermo abbiano messo nero su bianco che “il latitante (Riina, ndr) non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base a una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all’intuito investigativo del cap. De Caprio”.

“Nessun mafioso, nessuna persona, ci ha indicato l’abitazione dove abitava Riina”, ha ripetuto De Caprio. Che sia in tribunale, che altrove, ha sempre fornito la stessa versione: “chiedemmo ai magistrati di non perquisire il covo perché avremmo altrimenti compromesso sviluppi investigativi importanti. Quella decisione è stata mia. Ancora oggi penso che sia stata una decisione giusta. Certo, può anche essere criticata. Ma soltanto dal punto di vista operativo e non dicendo che non siamo entrati nel covo perché mi ero accordato con Provenzano”. “Tutto si è svolto in modo legittimo e trasparente, senza alcun inganno verso la procura e senza alcuna trattativa. Chi parla di trattativa e di accordi, come Ciancimino, e’ solo un vile, uno dei tanti vili servi di Riina”.

“Riina Salvatore, lei è catturato per mano dei Carabinieri”, disse Ultimo a ‘u curtu al momento dell’arresto. E subito dopo, con la sua squadra, la Crimor, si prese una piccola rivincita: una volta in caserma lo fecero sedere su una vecchia sedia di legno davanti alla foto del generale Dalla Chiesa. Uno dei “punti di riferimento” di De Caprio, insieme ai giudici Falcone e Borsellino. Proprio quando venne ucciso Falcone, ha raccontato Omar, uno della ‘Crimor’, “Ultimo ci ha quasi sfidato a catturare Riina e insieme abbiamo deciso di provarci. Siamo arrivati a Palermo dopo un paio di giorni, senza che nessuno ce lo avesse chiesto o ordinato. Abbiamo deciso da soli”. Invisibili, mimetizzati sul territorio, con l’unico obiettivo di stanare la preda. “Ci siamo allenati a pensare e a vivere come mafiosi e forse siamo diventati più bravi e cinici di loro”.

(ANSA)

Redazione

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