Smantellata una rete di prostituzione a Giugliano: quattro arresti
Nella mattinata odierna gli uomini della Polizia di Stato della Squadra Mobile partenopea hanno dato esecuzione ad una ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. del Tribunale di Napoli su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia, nei confronti di 4 persone, un italiano e 3 nigeriani, gravemente indiziati di associazione a delinquere avente carattere di transnazionalità, tratta di esseri umani, riduzione in schiavitù e sfruttamento della prostituzione.
Si tratta di E. O. alias MOMMY, di anni 30, che vive in un appartamento ubicato in Località Lago Patria, a Giugliano in Campania (NA), insieme ad alcune connazionali, che lei stessa ha fatto giungere direttamente dalla Nigeria e che fa prostituire per suo conto; del suo fidanzato, E. E. di anni 29, che collabora con la fidanzata nella gestione delle ragazze; di D. M. A. di anni 70, che è uno dei tassisti, con pregiudizi di polizia specifici, che collabora con la O. accompagnando ed andando a riprendere sul posto di lavoro le ragazze; di I. B. e di E.O., fratelli di E. O. che collabora con la sorella nella gestione delle ragazze ed ha contatti con altri soggetti, allo stato non identificati, che si trovano in Nigeria e in Libia e che, verosimilmente, organizzerebbero i cosiddetti “viaggi della speranza”.
Le indagini coordinate dalla DDA, che hanno portato all’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare percorrono, esattamente, le modalità appena descritte e sono state avviate nell’aprile del 2016 in seguito alla denuncia sporta da una ragazza minorenne nigeriana, che riferiva di essere arrivata in Italia a bordo di un barcone dopo aver percorso un lungo viaggio, stipati in due autobus, insieme ad altri 140 connazionali, fino alla Libia. Giunta a Lampedusa, contattata da un uomo, veniva poi accompagnata, unitamente ad una sua amica, in zona Giugliano (NA), dove entrambe venivano consegnate ad una cosiddetta “madame” di nome G., e venivano indotte a prostituirsi per pagare un debito di 30.000 euro per la sua liberazione.
La ragazza, prima di lasciare il suo villaggio in Benin City, era stata sottoposta al “rito voodoo”, che, nella regione di origine della minorenne, è chiamato “juju” religione tradizionale dell’africa occidentale.
L’articolata attività investigativa condotta dalla Squadra Mobile, sia tecnica che di riscontro delle dichiarazioni rese dalla ragazza sfruttata ha fatto emergere che le predette ragazze erano gestite da E. O. La donna, come tutte la donne nigeriane che gestiscono le loro connazionali inducendole alla prostituzione, ha anticipato i soldi occorrenti per il viaggio, significando che queste ultime, una volta giunte da E., ratealmente, glieli dovranno restituire oltre a doverle versare, settimanalmente, le spese per il vitto e l’alloggio, per il costo del posto dove si prostituiscono e per l’affitto di casa.
E, o M. come la chiamano le ragazze, coordina queste ragazze nigeriane (sorelle) nell’attività di prostituzione, beneficiando degli introiti che queste ultime ricavano da detta attività. M. è solita spostarsi insieme alle sue sorelle, ma quando non le accompagna sul luogo dove si prostituiscono, nel nolano, a Battipaglia ed a Giugliano, telefonicamente, verifica se sono arrivate, e, col passare delle ore, controlla come procede la giornata lavorativa. M. gestisce in toto le ragazze e tutto quello che riguarda loro, è’ solita organizzare l’accompagnamento ed il rientro delle sorelle a casa, contattando, in prima persona, un TAXI, che funge da accompagnatore. E’ sempre M. che impartisce disposizioni alle ragazze, le controlla quando si devono preparare e scendere per lavorare, compra loro accessori per essere più piacenti, come ad esempio delle “soppraciglia”, che poi lei stessa mette alle ragazze, compra i preservativi che devono usare con i clienti ed infine, è sempre lei che decide cosa queste ragazze devono mangiare.
Le ragazze la considerano la figura di riferimento, la contattano per riferirle tutti i movimenti che fanno durante la giornata “lavorativa”, dal momento che il taxi le accompagna sul posto di lavoro, la informano se c’è o meno lavoro ed infine le spiegano dove si appartano con il cliente o dove si cambiano di abito, poiché le ragazze quando lavorano (si prostituiscono) indossano abiti diversi da quelli che avevano all’uscita di casa.
Un ruolo da comprimario è rivestito da E. E., alias E., fidanzato di E. O. che costituisce una presenza fissa nella vita della donna. E. è informato sull’attività svolta dalla fidanzata e conosce bene le sue ragazze, delle quali chiede conto ad E. L’uomo si informa se le ragazze sono andate al lavoro, con quale mezzo, se hanno lavorato bene. Quando una delle ragazze di E. in seguito ad un incidente stradale, viene accompagnata dalla donna in ospedale, Ema rimane in contatto con la fidanzata, le suggerisce di fare attenzione a che la ferita non parli con alcuno e le dice di portarla via dall’ospedale e di curarla a casa per evitare di incorrere in controlli da parte della polizia.
Il D. M. A. è uno dei TAXISTI, risulta essere titolare di pensione di anzianità, collabora con la O. accompagnando ed andando a riprendere sul posto di lavoro sia le ragazze che lavorano per conto della O. sia quelle che lavorano per altre madame. Il D. M. è una figura nuova nello scenario dello sfruttamento della prostituzione, poiché i soggetti di etnia nigeriana si affidano, per questo tipo di servizi, a loro connazionali o comunque a soggetti di colore e non a bianchi. Cambia per ben 4 volte utenza telefonica e, nelle conversazioni intercettate, di sovente, ripete di “non parlare al telefono”.
I. B. di 35 anni, fratello di E. O. si interessa anch’egli dell’attività lavorativa della sorella ed ha contatti con altri soggetti, allo stato non identificati, che si trovano in Nigeria, in Libia e che, verosimilmente, organizzerebbero i viaggi, che consentono alle ragazze di giungere in Italia e di avviarsi alla prostituzione. L’uomo è stato catturato a Monza, con l’ausilio del personale del locale Commissariato.
O. O. ha frequenti contatti con la madre che vive in Nigeria, con la quale parla dell’attività di prostituzione che E. fa svolgere a ragazze sue connazionali. E’ infatti alla loro madre che toccano le incombenze riguardanti i contatti con il padre spirituale (baba-loa) per i riti wodoo da improntare nei confronti delle ragazze di E., per trovare una soluzione al problema che, di volta in volta, le si presenta (ragazza che è scappata, oppure ragazze che non guadagnano bene, evitare i controllo della polizia…). O. E. e la madre sono poi soliti commentare gli esiti immaginifici provocati dal rito wodoo.
O. oltre a coadiuvare e supportare la sorella nell’attività di induzione e sfruttamento della prostituzione di ragazze sue connazionali, in accordo con quest’ultima e con la madre, decide quante ragazze debbono far giungere in Italia per farle prostituire per loro conto e come queste devono arrivare. O. inoltre, si confronta con la madre sui soldi che le ragazze devono pagare per il loro “debito” contratto al momento della venuta in Italia e al quale non possono sottrarsi anche perché terrorizzate dal giuramento fatto in occasione del rito del baba-loa e dalle conseguenze che si scatenerebbero nel caso in cui violassero l’impegno preso.
Le indagini svolte hanno confermato che ragazze nigeriane, tra tutte le prostitute, sono quelle più sfruttate, vittime del racket e di una cultura che le sottopone a riti “magici” (vodoo), per “legarle” ulteriormente al loro sfruttatore. Esse, per giungere in Italia, si indebitano con i loro stessi sfruttatori, che per farsi ripagare le fanno lavorare giorno e notte, sotto il sole o con la pioggia. Generalmente si trovano sulle strade vicine alle grandi città del centro-nord o più a sud, sul lungomare del Casertano. E’ li che le prostitute nigeriane aspettano il cliente di turno, fermano le macchine con gesti accattivanti, ostentano un piglio grintoso e atteggiamenti aggressivi. A tenerle inchiodate al marciapiede non è una libera scelta; difatti, malgrado le apparenze, gran parte di loro sono rimaste vittime di un meccanismo perverso che ha inizio in Nigeria. Molte di loro sognano un lavoro normale in Europa ed è per questo che, anche a rischio della propria vita, si imbarcano in un viaggio lungo e faticoso. Tutte hanno contratto un debito per pagare le spese del viaggio, il contratto d’espatrio e il baba-loa, ovvero, un santone che pratica riti magici voodoo o juju. Di questo debito sono diventate schiave, costrette a vendere il proprio corpo sette giorni su sette. Il baba-loa è una figura religiosa tradizionale molto diffusa e rispettata, soprattutto nelle zone non musulmane della Nigeria meridionale. Sembra che nello stato di Edo ci siano infatti ben 5000 baba-loa, regolarmente iscritti a un albo professionale di categoria, i cui compiti sono legati soprattutto al bisogno di coesione comunitaria, mediazione nei conflitti sociali e familiari, nonché virtù di carattere terapeutico. In genere le ragazze vengono portate dal baba-loa, che le fa inginocchiare, si fa consegnare un ciocca di capelli, dei peli pubici, una fotografia, un lembo del vestito, unghie dei piedi, un assorbente usato e li mescola in un sacchetto pieno di polveri magiche. Invoca gli spiriti degli antenati e le ragazze giurano che obbediranno sempre alla signora (maman, mommy o madame) che le deve portare in Italia. Questo tipo di rito voodoo contribuirà a rendere docili ed obbedienti le ragazze, terrorizzate dal fatto che alcune parti del loro corpo sono nelle mani dello stregone. Pertanto si considerano legate a doppio filo all’impegno preso. Poi ci sono i mesi di viaggio, di solito attraverso l’Algeria, il Marocco, la Spagna, l’Italia. Il debito è la morsa che schiaccia le donne, l’arma di ricatto che le lascia senza scelta. I contratti prevedono che la firmataria dovrà accettare qualsiasi occupazione le sarà proposta ed in caso di inadempienza, i creditori potranno rivalersi sulla famiglia, che normalmente impegna le poche ricchezze di cui dispone. L’organizzazione che gestisce il traffico ha una strutturazione precisa e ben articolata. Ai reclutatori che passano a setaccio Benin City e il suo hinterland e organizzano i trasferimenti, corrisponde in Italia una struttura preposta all’«accoglienza» e all’istradamento alla prostituzione. Chiave di volta di questa struttura è la maman/ mommy, spesso un’ex prostituta, che si presenta come una figura materna. Ogni maman accoglie nella propria casa sette-otto ragazze, gestisce i loro guadagni, si occupa del risarcimento del debito e ricorda loro, qualora non volessero piegarsi alle sue condizioni, il doppio vincolo che hanno con l’organizzazione. La maman è una figura ambigua: passata per l’esperienza che impone alle sue sottoposte, si presenta come una protettrice e una benefattrice è la leader più anziana di cui ogni gruppo ha bisogno. Le ragazze dormono sotto lo stesso tetto, lavorano negli stessi luoghi, mangiano insieme. Costituiscono insomma piccole comunità, dotate di regole, dinamiche interne, contraddizioni e conflitti. Una dimensione collettiva che contribuisce a creare un senso di appartenenza, alleviando in qualche modo le difficoltà di un’esistenza forzata. Per estinguere il debito occorrono in media tra i due e i tre anni di lavoro continuativo, considerate anche le spese che vengono detratte per il vitto, l’alloggio e l’affitto del joint, la porzione di strada su cui “lavorare”. Coloro che giungono al termine del percorso, senza essere rimpatriate coattivamente o senza innescare i meccanismi di fuoriuscita dal circuito previsti dalle leggi italiane, a volte decidono di continuare a lavorare nel settore del sesso a pagamento. In questo caso possono scegliere due strade: esercitare in proprio o entrare a far parte dell’organizzazione e diventare maman, dopo un periodo di apprendistato in cui aiutano la capo-gruppo nelle mansioni quotidiane. La sfruttata può quindi diventare sfruttatrice e decidere di perpetuare il sistema, che appare così retto da una sua logica intrinseca, perversa ma rigorosa. Secondo questo schema, le donne accettano di vivere in una situazione para-schiavistica tre o quattro anni, per poi cominciare quel processo di accumulazione del capitale che rappresenta il senso ultimo del loro progetto migratorio.