(VIDEO) La Storia di Aversa. La Contessa Bellentani: l’assassina

La contessa Pia Bellentani, moglie del conte Bellentani – industriale milanese – madre di due bambine, la sera del 15 settembre 1948, durante una serata mondana a Villa D’Este sul lago di Como, uccise l’amante Carlo Sacchi, anch’egli sposato e padre di due bambine col quale da otto anni intratteneva una complicata relazione.

Nel corso della serata Sacchi aveva tenuto un comportamento cinico e arrogante nei confronti della donna e non aveva esitato a sbeffeggiarla, incurante delle suppliche della donna ad essere gentile.

Logorata dal trattamento riservatole dall’amante, Pia Bellentani prese la pistola lasciata dal marito nel guardaroba, si avvicinò a Sacchi e lo colpì a bruciapelo.

Alla contessa Bellentani la Corte riconobbe il vizio di mente comminandole dieci anni di manicomio giudiziario, ridotti poi a sette, trascorsi nel manicomio giudiziario di Aversa, dove fu sottoposta a perizia psichiatrica dal prof. Filippo Saporito.

Il professore Saporito impiegò ben due anni per stendere la perizia psichiatrica della contessa, l’ultima della sua carriera di illustre luminare della psichiatria (aveva cominciato con il brigante Musolino) e stabilì che la donna era vittima di un male ereditario, che già in tenera età le avevano portato smarrimenti, turbamenti, annebbiamenti mentali.

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Saporito aveva studiato la vita della contessa in ogni particolare, aveva letto le sue lettere, i suoi quaderni di scuola.

L’idea del suicidio l’aveva accompagnata per tutta la vita e lei, forse, uccidendo l’amante aveva ucciso se stessa. 

Al manicomio giudiziario la contessa sfuggiva la compagnia delle altre detenute, aveva contatti solo con il direttore e con la madre superiora.

Dall’Archivio Storico Luce, il servizio videogiornalistico sul Processo alla contessa Pia Bellentani per l’uccisione di Carlo Sacchi, datato 20/03/1952
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Il suo ingresso in manicomio fu seguito con lo stesso interesse con cui i giornali avevano seguito le fasi del processo. La contessa fu accolta con grandi gentilezze e cortesie.

Dopo qualche tempo fu autorizzata a tenere con se il pianoforte a coda che talvolta suonava davanti alle ricoverate.

Quando lasciò il manicomio giudiziario di Aversa, ad attenderla al portone la contessa trovò un gruppo di fotografi pronti a cogliere con i loro obiettivi la donna che aveva pagato la sua dignità con sette anni di manicomio giudiziario.

Lei, accompagnata dal suo avvocato, elegante, altera come sempre, si limitò a salutare alzando il braccio, poi salì su una macchina nera di lusso che partì senza esitazioni, diretta in Abruzzo dove l’attendevano la madre e le figlie.

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Redazione

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