Vulcani. ‘Visibili’ e ‘invisibili’, tra rischi e opportunità energetica

In questi giorni c’è attività tra i vulcani italiani, come l’Etna e lo Stromboli. Ma ci sono ‘vulcani che si vedono e vulcani che non si vedono ma ci sono’. Com’è la ‘situazione vulcani’ in Italia, ci sono quelli manifesti, che tutti conoscono, e quelli meno noti, ‘più discreti’ come la solfatara di Pozzuoli. Quali sono le loro differenze e similitudini, come li dobbiamo considerare? La DIRE ne ha parlato con Boris Behncke, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e vulcanologia (INGV), vulcanologo all’Osservatorio Etneo dell’istituto, e Monia Procesi, ricercatrice dell’INGV di Roma, specializzata in geochimica dei fluidi.

‘L’Etna in questi giorni ci da molto da fare con episodi detti parossismi, brevi, violenti, spettacolari, con fontane di lava, colonne eruttive, e per non farci mancare niente anche lo Stromboli è piuttosto ‘pimpante’ e ci tiene con il fiato sospeso’, spiega Behncke. Attività normale, ‘trattandosi di due dei vulcani più attivi al mondo’, segnala il ricercatore, attività ‘che ogni tanto aumenta e si manifesta in modo più spettacolare’ e che, verificandosi allo stesso tempo, possono far pensare a un collegamento, a qualcosa di strano in corso, un’influenza reciproca, ma non è così, ‘in realtà sono cose normalissime’ precisa l’esperto. Vulcani ‘visibili’, con il loro cono, e poi quelli più ‘discreti’, come la Solfatara di Pozzuoli. ‘La Solfatara è solo uno dei tanti crateri che si trovano all’interno di una caldera, una grande depressione di collasso, un vulcano che qualche decina di millenni forse era un cono che però è collassato in seguito a una enorme eruzione esplosiva’, diventando ‘una pianura a forma di conca con diversi crateri dentro fra cui la Solfatara’, spiega Behncke. ‘Un vulcano molto meno visibile, e questo è parte del problema, quando si tratta di far capire agli abitanti dei Campi Flegrei che è un vulcano attivo che un giorno potrebbe eruttare’, precisa. Insomma, ‘i vulcani meno visibili sono quasi più pericolosi perché la gente non se ne rende conto’, avverte il ricercatore INGV.

Un vulcano ‘che non si vede’ si trova nel Tirreno meridionale, dalle parti delle Eolie ed è sottomarino: il Marsili. ‘E’ uno dei tantissimi vulcani sottomarini del pianeta, si stima che l’80% dei vulcani sia sotto il mare’, spiega Boris Behncke, ricercatore INGV, vulcanologo. ‘Il Marsili è un grande vulcano, con un’altezza dal fondo marino di circa 500 metri sotto il livello del mare, grande quasi quanto l’Etna. Non è particolarmente destinato a creare catastrofi- prosegue- i vulcani ogni tanto franano, perdono pezzi, e se succede in mare si può creare uno tsunami’. Per questo ‘servono fondi per studiare e monitorare il Marsili: anche se la possibilità che ci sia un grande crollo con un grosso tsunamni è molto remota non si può escludere, quindi meglio avere strumento per saperlo in tempo, perché se si verificasse avremmo solo una decina di minuti per avvertire la popolazione lungo le coste’, segnala Behncke.

Sorvegliare e osservare il vulcano sottomarino porterebbe anche a un accrescimento della conoscenza scientifica, oltre alla tutela da eventi potenzialmente disastrosi. ‘Realizzare un osservatorio sottomarino ci farebbe fare un ‘figurone’ dal punto di vista scientifico, rendendo il Marsili un vulcano-laboratorio sottomarino europeo’, suggerisce il vulcanologo. ‘Ne esiste uno in Oregon, negli Stati Uniti, un osservatorio sottomarino che trasmette dati in tempo reale su deformazioni del suolo, attività sismica’, consentendo una sorveglianza efficace. Replicarlo sul Marsili, ‘un vulcano attivo con evidenza di attività anche esplosiva abbastanza recente, potrebbe rappresentare anche un progetto di ricerca che ci porterebbe all’avanguardia nel settore dei vulcani sottomarini come lo siamo per quelli su terra’, spiega Behncke.

Un vulcano, però, significa non solo pericolo, o spettacolo, ma anche opportunità, ad esempio l’utilizzo del calore dei vulcani a fini energetici. ‘Le zone vulcaniche rappresentano zone virtuose da un punto di vista energetico perché grazie al loro calore possiamo estrarre energia, per produrre elettricità, o usare il calore in maniera diretta: acque calde per floricutura o itticultura, o processi industriali come l’essicazione di alimenti o la produzione di carta, o birra’, spiega Monia Procesi, ricercatrice dell’INGV di Roma, specializzata in geochimica dei fluidi. ‘Le zone vulcaniche possono rappresentare una grande opportunità’ perché ‘il calore nel sottosuolo è decisamente maggiore rispetto al normale gradiente geotermico terrestre, che è di circa 30 gradi ogni km. In queste aree invece si arriva a 100-150 gradi ogni km e a volte anche di più’, il che comporta ‘una disponibilità di calore molto elevata che può essere utilizzato come risorsa energetica’, segnala Monia Procesi, ricercatrice dell’INGV di Roma.

Oggi le fonti di energia geotermiche rappresentano un’opportunità di fronte alla necessità di sostituire le fonti fossili nella risposta, complessa, all’emergenza climatica in atto. ‘La geotermia è una grossa opportunità, soprattutto in Paesi come il nostro, dove abbiamo molte zone con temperature interessanti dal punto di vista geotermico’, spiega Procesi, inclusi siti storici come il Larderello, ‘il primo a produrre elettricità da fonte geotermiche agli inizi del 900’. Insomma, la geotermia può ‘integrare la domanda energetica e insieme ad altre rinnovabili andare in futuro a sostituire quasi completamente i combustibili fossili’, segnala la ricercatrice INGV, e ‘in Italia potremmo avere molte altre zone oltre la Toscana in cui utilizzare queste risorse’, spiega Procesi. L’uso della geotermia può contribuire alla riduzione delle emissioni di gas serra in atmosfera ‘anche se è necessario dire che anche i migliori impianti non sono a impatto ambientale nullo- rileva la ricercatrice- Un tema spesso dibattuto sono infatti le emissioni di anidride carbonica rilasciate dalle centrali geotermiche. Un concetto importante che è necessario acquisire è che la CO2 non è prodotta dal ciclo di produzione di energia geotermoelettrica, ma si genera in modo naturale nel sottosuolo, nei serbatoi geotermici e in sistemi magmatici profondi’. Questa anidride carbonica ‘può quindi risalire in superificie insieme anche ad altri gas, come l’Acido solfidrico (H2S), e dare origine ad ampie aree di degassamento diffuso’.

Quindi, ‘la CO2 emessa dalla centrali geoermoelettriche e una parte di quella che sarebbe comunque rilasciata naturalmente attraverso il degassamento del suolo’, dice Monia Procesi, ricercatrice dell’INGV di Roma. Questo fa emergere l’idea che risalite di gas dal sottosuolo, che danno origine a degassamenti diffusi, soffioni, fumarole e polle gorgoglianti sono segni indiretti della possibile presenza in profondità di un sistema geotermico che trova la sua fonte di calore in corpi magmatici profondi. ‘E’ necessario comunque dire che i continui progressi nella tecnologia geotermica permettono oggi di avere impianti, anche se con ridotte capacità installate, a emissioni pressochè nulle’, sottolinea Procesi.

La tecnologia a livello mondiale mostra ‘un mercato in continua evoluzione, dopo una stasi negli anni passati ha ripreso piede e ora è in continuo progredire’, prosegue. ‘Ci sono aree particolarmente virtuose sia per ricerche che per disponibilità di risorse- evidenzia l’esperta- in Nord Europa ci sono moltissimi progetti, e impianti anche con risorse geotermiche limitate. Francia, Svizzera e Germania stanno investendo moltissimo, gli Stati Uniti sono molto attivi, e sono molte le ricerche in Sud America, in particolare in Cile, una zona con grandi potenzialità. Molte ricerche e investimenti anche in Kenya, Indonesia, Filippine, mentre una potenza geotermica emergente è la Turchia, senza dimenticare la Nuova Zelanda, un Paese che ha tante risorse e dove gli studi sulla geotermia hanno avuto spesso origine’.

In Italia ‘abbiamo progetti, purtroppo però la burocrazia ci rallenta, e così molte volte ci troviamo indietro- conclude Procesi- avremmo tantissime potenzialità e risorse geotermiche ma non riusciamo ancora a utilizzarle a pieno, e così Larderello e il Monte Amiata rimangono gli unici siti in produzione’.

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