(VIDEO) Palermo. Mafia, quel ‘saldo legame’ tra famiglia di Torretta e boss Usa
Blitz dei carabinieri del Comando provinciale di Palermo contro la famiglia mafiosa di Torretta. L’operazione, denominata ‘Crystal Tower’, ha portato nove persone in carcere e una agli arresti domiciliari, mentre per un undicesimo indagato è stato emesso un obbligo di dimora nel comune di residenza. Le misure cautelari sono state disposte dal gip del tribunale di Palermo, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia. Le accuse sono di associazione mafiosa, detenzione di stupefacenti, favoreggiamento personale e tentata estorsione con l’aggravante del metodo mafioso.
L’indagine, condotta dal Nucleo investigativo dei carabinieri di Palermo e coordinata da un pool di magistrati diretti dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca, ha portato ad approfondire la struttura e le attività criminali di una storica famiglia di Cosa nostra palermitana, inserita nel mandamento di Passo di Rigano, e costituita dalla famiglia mafiosa di Torretta. La famiglia mafiosa di Torretta, piccolo borgo con poco più di 4mila abitanti nell’hinterland palermitano, è considerata dagli investigatori da sempre collegamento tra Cosa nostra siciliana e e quella newyorkese: in passato distinta alcuni esponenti del clan assunsero il ruolo di garanti per il rientro in Italia dei cosiddetti ‘scappati’, gli sconfitti nella guerra di mafia dei primi anni Ottanta che subirono l’ostracismo dei corleonesi di Totò Riina.
Il lavoro della Dda e dei carabinieri ha consentito anche di individuare i canali di comunicazione tra la famiglia di Torretta e i vertici del mandamento di Passo di Rigano. Gli investigatori hanno poi scoperto diversi tentativi di estorsione: uno di questi ai danni di un imprenditore agricolo palermitano che si era insediato a Torretta e che è stato subito avvicinato da alcuni esponenti del clan. L’imprenditore, che aveva subito piccoli furti e danneggiamenti, ha raccontato tutto ai carabinieri denunciando le pressioni subite. Secondo i carabinieri il quadro che emerge dalle indagini è quello caratterizzato da “una costante, sebbene incruenta, conflittualità interna” del clan di Torretta. In quest’ambito sono saltati alla luce “soggetti appartenenti a fazioni storicamente slegate fra loro”. Al vertice della famiglia, secondo gli investigatori, ci sarebbe stato Raffaele Di Maggio, figlio dello storico boss Giuseppe, detto ‘Piddu i Raffaele’, morto nel gennaio 2019, “coadiuvato” da Ignazio Antonino Mannino, anche lui con una funzione “direttiva e organizzativa”, e da Calogero Badalamenti, a cui sarebbe stata affidata l’area di Bellolampo.
I carabinieri citano anche Lorenzo Di Maggio, detto ‘Lorenzino’, scarcerato nell’agosto del 2017 e sottoposto a sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno a Carini. C’è poi il ruolo di Calogero Caruso, detto ‘Merendino’, “anziano affiliato – sottolineano i carabinieri – e già figura di vertice della famiglia mafiosa torrettese, sotto il quale si andava accreditando il nipote Filippo Gambino”. Tra i nomi evidenziati dagli investigatori anche quello di Calogero Christian Zito, monitorato in numerosi spostamenti tra la Sicilia e gli Usa. Accanto a questi, le indagini si sono concentrate anche su due imprenditori edili torrettesi, i fratelli Puglisi, “pienamente inseriti nelle dinamiche” osservate dagli investigatori.
Tra la mafia di Torretta, piccolo centro del Palermitano, e Cosa nostra statunitense c’era un “persistente e saldo legame”. La mafia d’oltreoceano, secondo gli investigatori, era capace di condizionare, attraverso propri emissari, gli assetti criminali torrettesi ma era anche “fonte di tensioni”, come in occasione dell’omicidio del mafioso newyorkese Frank Calì, detto ‘Franky Boy’, esponente della famiglia Gambino, ucciso nella sua residenza di Staten Island, a New York, il 13 marzo 2019. Nei giorni successivi all’omicidio il figlio di uno degli indagati nell’inchiesta della Dda partì per gli Stati uniti e durante la sua permanenza a New York incontrò diversi appartenenti a Cosa nostra Usa. Rientrato dal viaggio, il giovane riferì il clima di profonda tensione creatosi sulla sponda americana, “esprimendo le proprie valutazioni sulla possibile successione a Calì. Negli stessi giorni a Torretta gli investigatori registravano i commenti “di prima mano” di alcuni degli indagati che conoscevano personalmente Calì e che in un primo momento avevano temuto che l’episodio potesse ingenerare una pericolosa escalation di violenze nella quale rischiavano di rimanere direttamente coinvolti anche altri soggetti a lui vicini e considerati attivi nel contesto mafioso americano.
(Sac/Dire)