“Nulla dies sine vino”: Asprinio
Plinio il Vecchio, nella sua opera “Storia Naturale” risalente al 77 d.C., nel capitolo 35, adopera la locuzione “nulla dies sine linea” riferita all’illustre e laborioso pittore greco Apelle, il quale non trascurava giorno senza tratteggiar linea con il suo pennello o senza darsi da fare per il compimento delle sue opere. Apelle si esercitava perennemente nella sua arte per spingersi ai limiti della perfezione. Questo lo rese noto fra i suoi contemporanei che ne hanno tramandato la memoria fino a noi. Con questo esempio, Plinio il Vecchio vuole sottolineare la necessità dell’esercizio quotidiano, costante e concreto invitandoci a non mollare perché ogni cosa ha il suo tempo e progredendo con caparbietà e curiosità si raggiungono soddisfacenti risultati nelle imprese della nostra vita.
Tutto quanto detto è perfettamente sovrapponibile alla storia del vino dalle origini ai giorni nostri. Per cui la locuzione “Nulla dies sine linea” si può ragionevolmente rimodulare nella locuzione “Nulla dies sine vino”.
Come da un pennello si dà a vita a nuove forme e significati, sino a giungere al compimento di opere immortali così dalle radici della vite, ossia dall’inizio del tratteggiar con un pennello, nascono frutti ineguagliabili ed unici che destano innumerevoli sensazioni. Di qui la necessità, per giungere al prodotto finale, il vino, di progredire nella ricerca, di stimolare la curiosità, di non fermarsi dinanzi agli ostacoli. In un qualsiasi bicchiere di vino c’è una storia di ricerca, passione, progresso e ostacoli da superare.
Il sommo Cicerone, in una sua opera, cita lo storico Erodoto o da cui traiamo le prime testimonianze di esistenza del vino degustato nei banchetti e quindi simbolo di convivialità e spensieratezza. Il vino, secondo le leggende, nacque per caso, ma evoluto e perfezionato nel tempo, giungendo fino a noi attraverso secoli di storia. Lo stesso Plinio il Vecchio, nella sua “Storia Naturale” sopra citata, descrisse e indicò una grande varietà di vigneti che venivano coltivati a quel tempo, circa 185, tra cui un’ottantina di alta qualità.
Ebbene proprio come se fosse stato disegnato con un pennello nasce nella Campania felix un vitigno unico e singolare: l’Asprinio.
Sulla nascita di questo vitigno tante sono le leggende, pare che gli Etruschi furono i primi ad usare la tecnica ad alberata tipica dell’asprinio laddove i Greci per i loro vitigni usavano la tecnica ad alberello. Si è sostenuto che l’asprinio non fosse altro che un biotipo del Greco in base ad analisi molecolari; altri hanno sostenuto che fosse una variante del pinot, vitigno introdotto durante la dominazione francese nel 1500.
La storia più attendibile sull’origine dell’asprinio risale al 1300, durante il regno degli Angiò. Alla morte di Carlo I D’Angiò fu incoronato Re di Napoli il figlio, ossia Roberto D’Angiò. La sua consacrazione e incoronazione avvenne a Lione dove fu inebriato dal gusto e dalle bollicine dello Champagne.
Quando tornò nel regno di Napoli per svolgere le sue mansioni politiche, non dimenticò le sensazioni e il sapore di quell’essenza provata in quegli anni a Lione, quindi con l’aiuto di un cantiniere esperto di Corte, Pierrefeu, furono impiantate delle viti di Asprinio non troppo lontane dalle mura di Napoli, al fine di ritrovare e riprodurre quel sapore. Con successive sperimentazioni venne fuori che spumantizzando le uve dell’asprinio aventi una spiccata acidità se ne ricava un ottimo spumante e in tal modo fu molto usato. A comprova di ciò, in “un’assise del vino” del 15 febbraio 1640 il prezzo dell’asprinio, a Napoli, era di 9 denari a caraffa.
Si tratta di un vitigno antichissimo, autoctono campano, a piede franco, che riuscì a resistere all’aggressione della fillossera nella metà del 1800. Ad oggi anche se non è molto diffuso, occupa solo lo 0,6% delle uve a bacca bianca, nel territorio campano ha conservato sicuramente una grande personalità.
La sua caratteristica di coltivazione è l’alberata aversana, viti che si ergono attorno ad alberi di pioppo ed olmi fino a 15-20 metri d’altezza, formando delle vere e proprie creazioni della natura.
Gli “eroi”, tali si possono chiamare i coltivatori che provvedono alla potatura e alla vendemmia, iniziano la loro opera già a fine agosto usando delle scale apposite di quasi 100 Kg e con una tecnica ormai diventata unica nel suo genere, raccolgono i grappoli, uno alla volta, privi di macchinari, ma con tanta passione.
Le uve, una volta raccolte, subiscono il processo di vinificazione e il prodotto ricavatone viene conservato in grotte di 15 metri sotto terra che preservano tutte le caratteristiche organolettiche di questo vino.
Inoltre sia il terroir di origine vulcanica riconducibile all’area flegrea composta da tufo, lapilli e potassio, che l’alberata aversana influiscono e condizionano i grappoli tenendoli lontani dal terreno e preservandoli dal calore.
La vendemmia anticipata verso fine agosto ed ancora l’assenza di zuccheri negli acini più in cima alla vite, sono tutti fattori che danno quella sapidità e freschezza al vino rendendolo unico ed ineguagliabile. Il prodotto di tutto questo dà un vino di colore giallo dorato, al naso dà vita a sentori agrumati, con un bouquet moderatamente intenso con sentori di limone e scorze di arancia e note erbacee.Pur essendo un vino non molto longevo, recenti studi e sperimentazioni da invecchiamento hanno dato buoni risultati come riscontrato dai consumatori e amanti di questo vino.
L’asprinio ha attraversato dei momenti di grande difficoltà negli anni ’70, in parte perché lo Stato finanziò l’abbattimento delle alberate e in parte per la diminuzione della forza lavoro, ossia degli “uomini ragno” che eseguivano una tecnica speciale per la cura della vite e la raccolta, subendo una perdita non solo del prodotto stesso, ma di una tradizione tramandata da generazioni.
Grazie però a un’azienda, “i Borboni”, capitanata dalla famiglia Numeroso, l’asprinio ha riacquistato la fiducia dei commercianti e soprattutto dei consumatori.
L’azienda “i Borboni” si è sviluppata grazie alla vendita delle loro uve sia alla Buton, azienda di Bologna fondata nel 1820, produttrice di distillati e brandy, come ad esempio la Vecchia Romagna, ad oggi diventata gruppo Montenegro, alla quale erano destinati quasi 100 tonnellate annue di uve, sia ai francesi, i quali l’usavano per produrre le loro migliori bollicine: lo champagne.
Molte altre aziende produttrici di asprinio, hanno progredito esportando i loro prodotti sia a grandi aziende sia all’estero, e ciò ha impedito una piena valorizzazione del prodotto nel territorio di origine.
Prima svolta ci fu con Gabriele Lovisetto, direttore negli anni ’70 dell’azienda Buton, il quale convinse la famiglia Numeroso a sperimentare ed adoperare la coltivazione a Sylvoz, ovvero vite più bassa e con cordoni orizzontali, puntando su un asprinio con minore acidità e quindi meno “aggressivo”.
Alla fine degli anni ’70, si iniziò a spumantizzare l’asprinio con il metodo Martinotti usando sia i grappoli in cima alla vite sia i grappoli delle prime vendemmie, questa tecnica si rivelò un successo. A ciò va aggiunta la creazione del classico vino fermo dell’asprinio rivisitato con le nuove tecniche di coltivazione. A tutto questo seguì il vero recupero del vitigno, nel territorio campano, evitandone la quasi estinzione.
Alla luce dei grandi risultati, l’azienda registra il marchio “i Borboni” nel 1982 raffigurante il giglio di famiglia che identifica l’azienda stessa. Quest’ultima si è denominata “i Borboni” per rendere omaggio all’epoca d’oro del sud Italia, durante il regno della detta dinastia.
L’azienda nacque ufficialmente nel 1998, quando terminarono i lavori di restauro, iniziati due anni prima, sia della cantina stessa che della grotta e la prima etichetta registrata fu proprio su una bottiglia di asprinio.
Quell’Asprinio “allegro, leggero e brioso” come fu descritto da Veronelli, divenne D.O.C. nel luglio 1993, in 22 comuni campani, tra cui 3 in provincia di Napoli e 19 nella provincia di Caserta, sia nella versione ferma, “Asprinio di Aversa DOC” con 85% di uve di asprinio e il restante 15% di uve autoctone a bacca bianca, e sia nella versione spumantizzata “Asprinio spumante di Aversa DOC” con 100% di uve di asprinio.
Ad oggi l’asprinio sta riscontrando grandissimi risultati, sia commerciali sia produttivi, e facendo ritornare ad occupare quel posto che merita un grande vino, unico nel suo genere, e ricco di tradizioni, infatti l’alberata aversana e il metodo di coltivazione della vite maritata al pioppo sono ufficialmente diventati “Patrimonio Culturale Immateriale della Campania” e ad un passo dall’essere riconosciuta dall’Unesco, basti pensare alla rinascita dell’asprinio grazie all’azienda “i Borboni”, ma anche ai premi e ai riconoscimenti nazionali, come l’asprinio di “Vitematta” inserita nell’annuario dei migliori vini d’Italia nel 2018 dall’analista sensoriale Luca Maroni.
Insomma, “questo grande piccolo vino” così etichettato da Mario Soldati, ha ripreso nelle sue terre la sua gloria, pertanto si può affermare che mai fu più appropriata allo sviluppo e alla storia stessa dell’asprinio, l’espressione “nulla dies sine vino”.
di Mario Giovanni de Simone