Tumori e mutazioni, l’oncologa: “Con tre casi in famiglia sì al test genetico”

Se in famiglia ci sono stati diversi casi di tumore legati a mutazioni genetiche o a sindromi ereditarie, cosa bisogna fare per intraprendere un percorso di prevenzione e sorveglianza? “Esistono diversi criteri da seguire per stabilire se una persona debba sottoporsi a un test genetico: il numero di casi di tumore in famiglia, che di solito devono essere almeno tre; il grado di parentela con chi ha avuto i tumori, bisogna infatti essere parenti di I grado (quindi essere genitori, figli, fratelli); l’età, perché in genere non consigliamo di effettuare questi esami prima dei 18 anni”. A spiegare in che modo viene fatta la valutazione per l’accesso ai test genetici per le sindromi ereditarie ad alto rischio tumorale è Cristina Oliani, presidente dell’Associazione italiana familiarità ereditarietà tumori (Aifet) e direttrice uoc di Oncologia Aulss 5 Polesana Regione Veneto, a margine della conferenza stampa odierna di presentazione della Fondazione Mutagens e delle partnership avviate con Alleanza contro il cancro, Aifet e Favo.

“È molto importante quindi partire dalla famiglia- ribadisce Oliani- il genetista compila dunque un vero e proprio albero geneaologico. Ad esempio- racconta- ci è capitato di aver preso in carico un ragazzo di 23 anni con tumore del colon al quale abbiamo trovato una mutazione genetica. Abbiamo quindi proposto di effettuare il test genetico alla sorella e al padre e a quest’ultimo abbiamo trovato la stessa mutazione. Con una attenta e costante sorveglianza, fatta di esami e colonscopie, abbiamo evitato a questo papà un tumore del colon, visto che già qualche anno prima era stato operato per un tumore del capocollo”.

Per meglio calibrare il ricorso a questi test, un altro metodo che viene utilizzato riguarda l’età di chi deve essere sottoposto al test: “La prassi- spiega l’oncologa- prevede che il test genetico venga proposto a persone che hanno 10 anni meno rispetto all’età che aveva il loro familiare più giovane quando ha sviluppato il tumore”. Se, per esempio, in famiglia ci sono stati tre tumori legati a mutazioni genetiche e i tre membri colpiti avevano 65, 50 e 35 anni, gli altri membri della famiglia (parenti di I grado) dovranno effettuare il test genetico a 25 anni.

La presidente di Aifet tiene però a precisare che l’individuazione dei soggetti con mutazioni genetiche o sindromi ereditarie non è sufficiente, bisogna poi “seguire queste persone per il resto della vita, con una sorveglianza costante. Uno studio realizzato in un Paese del Nord Europa ha infatti dimostrato che i pazienti con mutazioni genetiche, seguiti per tutta la vita, hanno la stessa aspettativa di vita dei loro familiari che non hanno quella mutazione. Un corretto percorso di sorveglianza significa preparare un calendario di esami, rimborsabili, con degli slot di appuntamenti dedicati e magari con la possibilità di prendere gli appuntamenti da parte del medico, fino al recall qualche giorno prima dell’esame. Informati e consapevoli, i pazienti dimostrano una buona aderenza a questi programmi. È importante non lasciare sole queste persone che sanno di avere un rischio così elevato. Non dobbiamo creare dei malati di rischio”.

Per offrire ai pazienti e ai soggetti sani portatori di mutazioni un servizio sempre più omogeneo sul territorio nazionale, efficiente ed efficace, Fondazione Mutagens e Aifet stanno pensando “di mettere in rete i centri di oncogenetica così da poter anche mettere a sistema i dati. La Rete permetterebbe di offrire un servizio migliore, per esempio nel caso di famiglie i cui membri non vivono tutti nella stessa Regione. Altro obiettivo sarebbe la standardizzarzione delle metodiche e dei criteri di accesso alla consulenza genetica, la condivisione di uguali protocolli e la creazione di indicatori per i Centri che devono essere misurati, monitorati (anche con l’aiuto degli assistiti) e raggiunti. L’accreditamento di qualità è un sistema che sta dando dei risultati importanti. Sarebbe inoltre molto utile la creazione di un database nazionale dei cittadini con mutazioni genetiche ad alto rischio perché- conclude l’oncologa- se il Servizio sanitario nazionale volesse intervenire con un’azione istituzionale, ad oggi, avrebbe dati che si riferiscono solo a stime e non a numeri reali”.

(Dire)

Redazione

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