Parto cesareo ritardato, condannate tre dottoresse

La terza sezionale penale del Tribunale di Catania ha condannato a sei anni ciascuno di reclusione due dottoresse, ritenute colpevoli di falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici nel processo sulla nascita, il 2 luglio del 2015, di un bimbo con gravissimi disturbi neurologici perché, secondo l’accusa, a fine turno avrebbero tardato a intervenire con un parto cesareo per non restare ancora al lavoro.

Il collegio sul capo di imputazione di lesioni gravissime colpose non si è espresso, trasmettendo gli atti alla Procura per valutare il profilo del dolo eventuale.

Nel processo l’azienda ospedaliera, a cui faceva capo l’ospedale, è entrata con il doppio ruolo di responsabile e parte civile ed è stata condannata in solido al pagamento dei danni morali, da stabilire altra sede, alle parti civili, i genitori del bambino.

I giudici hanno disposto il pagamento di una provvisionale da parte dell’Azienda e delle due dottoresse di 150mila euro ciascuno ai genitori del bambino, mentre, a loro volta, le due dovranno risarcire personalmente l’ospedale con 20mila euro ciascuno.

Il Tribunale ha condannato a cinque anni di reclusione una terza dottoressa, per falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici e al risarcimento, in solido con l’azienda, di 100mila euro ai genitori del piccolo e, personalmente, a 15mila euro euro all’ospedale.

Le tre dottoresse sono state interdette in perpetuo dei pubblici uffici e legalmente per la durata della pena. Il Tribunale ha trasmesso alla Procura gli atti delle deposizione di un teste per falsa testimonianza.

Due dottoresse sono accusate di non avere eseguito subito un parto cesareo per “evitare di rimanere a lavorare oltre l’orario previsto, nonostante i molteplici episodi di sofferenza fetale emersi dal tracciato, somministrato alla gestante dell’atropina per simulare una inesistente regolarità nell’esame medico”.

Nelle indagini della sezione di Pg della polizia della Procura, è entrata anche una terza dottoressa che, secondo l’accusa, “pur non essendo a conoscenza degli avvenimenti precedenti, praticava alla paziente per due volte le manovre di Kristeller, tecnica bandita dalle linee guida, nonostante un tracciato non rassicurante e non contattava in tempo il neonatologo che effettuava l’intervento di rianimazione con gravissimo ritardo”.

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